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martedì 23 febbraio 2016

Comprendere i processi di innovazione


Mi sono imbattuto in alcune considerazioni sull'innovazione, scritte da un docente di ingegneria dell'università dello Iowa, tale Andrew Kusiak, e pubblicate su Nature: le ho trovate molto interessanti. Provo a condividerle con voi.

Molto spesso si vede l'innovazione come un punto di partenza. Un'azienda che vuole innovare  prova ad inventare qualcosa che forse lascerà il segno, nel suo settore o nella vita di tutti i giorni. Se davvero funzionerà sarà il tempo a dirlo. Intanto, però, governi piccoli e grandi investono ingenti capitali in nome dell'innovazione. A volte tutto ciò serve anche da spot pubblicitario. Ma l'innovazione non deve essere confusa con l'invenzione e la creatività. La prima è spesso legata ai settori tecnologici o alla ricerca, la seconda è la capacità di generare idee e prodotti originali. Tuttavia non esiste una base concreta e partecipata per questi sforzi di innovazione. In più, ancor prima di tutto, l'innovazione richiede un fattore imprescindibile: il successo di mercato, non essere accessibile solo a pochi eletti.

Secondo Kusiak, ogni scoperta avrebbe una maggiore probabilità di successo se si riuscisse a trovare delle precise modalità per innovare. Il passato è pieno di esempi dove una particolare creatività si è presto trasformata in un grande successo, ma gli episodi dirompenti e davvero cruciali, anche dal punto di vista culturale ed antropologico, sono molto rari. Il percorso di innovazione è attualmente quasi più artistico che scientifico: questo potrebbe spiegare perché non è affatto efficiente. Di più, la gente si aspetta che dal calderone dell'innovazione escano anche le soluzioni ai problemi globali: le fonti energetiche alternative, la mitigazione dei cambiamenti climatici, l'eliminazione della povertà, garantire un'assistenza sanitaria a tutti. Molti programmi di ricerca sostengono di essere innovativi perché applicano nuovi approcci ai vecchi problemi, oppure perché si attendono nuove scoperte dalle quali poi un certo campo verrà innovato. Ma non è così semplice: si tratta di una logica intricata perché manca una vera comprensione del processo di innovazione, del quale nessuno ha mai pensato di farne un modello, magari replicabile.

Un'ipotesi potrebbe essere quella di creare una vera e propria scienza dell'innovazione. Potremmo analizzare la storia di alcuni brevetti per dare una forma al processo di innovazione, passando cioè dall'idea generalizzata di partenza alla sua applicazione pratica, in ogni settore. Oppure analizzare sistematicamente e scientificamente i fallimenti di chi ci ha preceduto, scartando a priori strade già esplorate senza successo. Ancora, provare a connettere campi apparentemente non correlati, che hanno già avuto il genio di produrre qualcosa di nuovo, scoprendone il percorso realizzativo comune.  

Infine, non si può fare un collegamento diretto tra industria ed innovazione. L'innovazione parte da una intensa sperimentazione, mentre nel mondo industriale, dove si cerca di rasentare la perfezione e impera il time-to-market, non è possibile tollerare grandi percentuali di scarto. Quei "preziosi" fallimenti sarebbero visti come un impedimento al business. Forse, conclude Kusiak, i governi e gli scienziati dovrebbero sprecare meno tempo nel trovare settori ai quali dedicare risorse (quando ci sono) e concentrarsi di più sulle modalità per innovare, aspetto trasversale a tutti.



(fonte http://www.nature.com/news/put-innovation-science-at-the-heart-of-discovery-1.19380 ; si ringrazia il sito http://www.zdnet.com/ per la gentile concessione della foto)

martedì 16 febbraio 2016

Voce artificiale, umana ma non troppo


La tecnologia si sviluppa per risolvere un problema, per attenuarne un altro, o per migliorare la qualità della vita. Lo so, è una visione un po’ troppo idealizzata, dato che molte applicazioni per noi comuni mortali, se non derivano dalla ricerca spaziale, giungono direttamente da chi progetta strumenti di morte. Molte volte però ci interessa quanto essa si posso avvicinare al nostro modo di interagire con il mondo che ci circonda. Essere user-friendly, insomma, come dicono gli amanti del british. Dunque, una tecnologia che coinvolga i nostri sensi. Ad esempio l’udito.

La voce artificiale o sintetizzata fa ormai parte di una vasta gamma di oggetti alla nostra portata, non solo computer e smartphone, ma anche automobili e giocattoli, così come alcune famiglie di robot casalinghi. La sintesi vocale è creata in diversi modi, tra i quali le tecniche di più alta qualità si basano su una voce umana che viene utilizzata per generare un database di parole e piccole frasi del discorso parlato, con differenti toni ed espressioni. Un doppiatore può spendere da decine a centinaia di ore per registrare un database. Dipende però anche dalla categoria di prodotti ai quali è destinata: per gli sviluppatori di giocattoli digitali gli errori di pronuncia o simili non sono determinanti, poiché l'obiettivo è quello di intrattenere, anzi potrebbero essere un plus e fare ridere gli utenti.

Tuttavia, per le voci che hanno lo scopo di collaborare con gli esseri umani in situazioni pratiche e diventare un importante ausilio, le sfide sono più sottili. E’ questo il motivo per cui una nuova scienza del design sta emergendo per definire e realizzare quelli che vengono chiamati "agenti di conversazione", software che comprendono il linguaggio naturale e possono rispondere, mostrando una certa intelligenza, a comandi vocali umani. Ma al momento non è possibile creare una voce computerizzata indistinguibile da quella umana, se ci si riferisce a dialoghi che vanno oltre le  indicazioni stradali. Al di là della pronuncia corretta, è anche necessario individuare correttamente qualità tipicamente umane come l'inflessione e l'emozione nella voce. I linguisti chiamano questo tema "prosodia", la possibilità di aggiungere correttamente stress, intonazione o forme di sentimento nella lingua parlata.

All’IBM, all'interno del progetto Watson di intelligenza artificiale, una parte del team ha dedicato più di un anno alla creazione di un enorme database di pronunce corrette. Hanno riscontrato problemi con modi di dire, come carpe diem, oppure nomi propri tipo champagne brut , dove alcune regole della pronuncia saltavano facilmente. I ricercatori hanno intervistato 25 doppiatori, alla ricerca di un particolare suono umano da cui partire per costruire la loro voce artificiale migliore. Una volta individuati 2 o 3 timbri migliori, hanno provato ad aggiustarne le tonalità, giocando con la frequenze. Risultato: voce troppo artefatta o addirittura con dei toni entusiastici quasi infantili, dunque poco accettabile nelle comuni applicazioni. Così sono tornati a settare finemente una voce sintetizzata che fosse più orecchiabile possibile, perfezionando il relativo software. Ne è venuto fuori un timbro che ha chiaramente tratti tipici di una voce artificiale, ma possiede alcuni caratteri riscontrabili nella voce umana.

Ad oggi, dunque, creare un computer con un proprio timbro ed una sua personalità emotiva è ancora un traguardo lontano. Ma il numero di applicazioni che interagiscono con noi, mentre siamo alle prese con altre "faccende", sta crescendo in modo tale che le qualità di una voce piuttosto che un'altra potrebbero, in futuro, divenire determinanti nella scelta di un prodotto. E se la sfida si porrà in ambiti commerciali, gli sforzi tecnologici saranno senz'altro adeguati.





martedì 9 febbraio 2016

Prove di allungamento della vita


La vita media nella parte occidentale del mondo negli ultimi 100 anni è aumentata in modo rilevante. Questo grazie ai progressi scientifici e tecnologici, per quanto a volte i relativi effetti collaterali non sono di poco conto, ma anche per motivi culturali. Però il desiderio di allungare la vita ancora di più non è solo una questione scientifica, visto che si può rifare a motivazioni di più ampio respiro, ad esempio di natura animistica, religiosa o ad ambizioni smisurate. Un tale desiderio deve essere balenato in mente a quei ricercatori che hanno sperimentato con successo un metodo per rallentare l’invecchiamento dei topi, alla Mayo Clinic di Rochester, nel Minnesota.

Nei topi come negli esseri umani l’invecchiamento è “segnalato” dal rallentare se non interrompersi definitivamente del meccanismo secondo cui le cellule si dividono e quindi si moltiplicano (gioco di parole, ma è la pura realtà). Si dice che diventano senescenti: per intenderci si trascinano stancamente qua e là senza alcuna attività o funzione in particolare. Possono però avere effetti dannosi, tipo quelli di interagire negativamente con altre cellule “di passaggio”. Il team di ricercatori, specializzati in ingegneria genetica, ha identificato in alcuni topi opportunamente “modificati” dei marcatori biologici legati a questo fenomeno di senescenza. Dopo i primi 12 mesi di vita dei ratti, una volta verificata la presenza di questi marcatori, l’uso di uno specifico farmaco ha permesso loro di eliminarli, ripulendo ogni animale dalle cellule invecchiate.

Anche se l'età massima dei topi sottoposti al test non è variata notevolmente, essi hanno mostrato un miglior stato di salute e, poichè provenivano da precedenti test per lo sviluppo di alcuni tumori, tendevano a ritardare gli effetti di questo male rispetto agli altri. Dal punto di vista genetico la transizione verso un sistema simile sugli uomini non è affatto semplice, anche se farmaci simili potrebbero essere sviluppati per trattare patologie specifiche, come il glaucoma. La startup Unity, che ha collaborato al progetto, ci sta già lavorando. E' chiaro che gli interessi economici in gioco sono davvero notevoli, sia per i finanziamenti, che negli USA al riguardo sono piuttosto cospicui, che per le ricadute produttive e remunerative di un simile trovato della biotecnologia. Google 2 anni orsono aveva creato uno spin-off, Calico, per studiare le tematiche legate al posticipo della senilità.

In generale, comunque, siamo ben lontani dal comprendere il meccanismo che regola l'invecchiamento in funzione dell'età, visto che in quasi tutti gli esseri viventi, all'interno della stessa specie, non c'è un fattore uguale per ognuno. Questo studio delle cellule senescenti potrebbe essere una risposta significativa a interrogativi del genere ? Se così fosse le grosse case farmaceutiche si tufferebbero completamente in progetti come questo, nella loro venale chimera di individuare un farmaco per tutto e per tutti. Intanto, proviamo a cambiare la nostra idea di disgusto per i topi, visto come vengono sacrificati per noi.




lunedì 1 febbraio 2016

Quante domande sul futuro dei bambini


La genitorialità è un argomento al centro delle cronache di questi giorni. Forse per i fautori di #svegliatitalia il termine non è adeguato, in quanto le famiglie da loro proposte non possono generare. Qui lo stavo usando in senso più ampio, genitori in quanto adulti a cui è stato affidato un bambino, adulti che si affiancheranno ed equivarranno, se la legge darà loro ragione, ai genitori naturali. Ma talvolta anche questi ultimi possono avere qualche difficoltà e non essere in grado di generare. Per essi, con tutte le fisiologiche discussioni etiche e morali al riguardo, la scienza e la medicina si sono sbrigate a trovare metodi alternativi per il concepimento.

Provo a raccontarvi una storia. C’erano due genitori ai quali i dottori avevano caldamente consigliato di non continuare a procreare, in quanto da analisi scientifiche vi era una elevata probabilità di avere un bambino con gravi problemi di salute. Ma l’uomo e la donna decisero di farlo ugualmente, perché grande era la loro volontà, sacrosanta direi, nonostante avessero già una bambina e il loro secondogenito era volato in cielo dopo solo 7 mesi. Così nacque James (nome di fantasia), che presentava tutti i problemi che la medicina aveva probabilisticamente previsto. James, appena uscito dal grembo della madre, fu trasferito in un ambiente sterile e lì, lontano da tutto e da tutti, dal mondo intero, ci rimase fino a 12 anni circa, fino a quando un tentativo di risolvere il suo problema e di abbattere la sua crudele barriera verso la vita se lo portarono via per sempre.

Immaginate voi, crescendo ed acquisendo consapevolezza, che cosa è potuto passare nella testolina di James. Pensate che diceva “a cosa serve che imparo la mia lingua se non posso uscire e parlare?”. Discorso di una fredda logica, ma come dargli torto. Ora, chi sono io per giudicare i genitori di James ? nessuno. Però, per fare un esempio contrario, conosco un marito e una moglie, certamente non unici, che avendo casi in famiglia con predisposizione ereditaria negativa, ha scelto, presumo con grande sofferenza ma molto Amore, di non avere figli. Estendo questa scelta a quelle di chi, facendo dei test prenatale, scopre importanti criticità nel feto e decide di abortire, per quanto il caso non sia proprio equiparabile ai primi. Alcuni potrebbero obiettare che i figli non si possono scegliere, che la natura deve fare il suo corso. Ma vi chiedo: queste decisioni sono egoisticamente prese per evitare vite difficili a chi, ai genitori o ai bambini ? E’ questo il punto.

Siamo dunque maturi per far accettare ai bambini, il vero snodo delle polemiche pro e contro Cirinnà, famiglie di tutti i tipi e lasciarli vivere serenamente ? abbiamo la cultura, in Italia, da Nord a Sud, per far comprendere loro che la forza dell’amore può andare oltre le leggi della natura ? In molti paesi questo accade e non si hanno notizie di grandi difficoltà. Da noi sarà la stessa cosa ? Stiamo pensando anche ai diritti dei bambini, più sacrosanti di quelli dei genitori, naturali e non ?

James è vissuto davvero, in Texas, dal 1971 al 1984. Si chiamava David Joseph Vetter, ma per molti è stato “il bambino nella bolla”. L’augurio è che nessun bambino in futuro, insieme alla coppia che il destino gli ha assegnato, possa crescere in una bolla.


(si ringrazia il sito http://mymoneyavenues.blogspot.it/ per la gentile concessione della foto)