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martedì 30 maggio 2017

Privacy vs transazioni nel XXI secolo


In principio era il baratto, poi arrivarono monete e banconote, e nessuno aveva previsto lo schiavismo intellettuale e morale che ne sarebbe derivato. Nel tardo '900 ci ritrovammo carte di credito e di debito le quali, passato lo scetticismo iniziale, si sono affermate piuttosto bene. Certo, si tratta di sistemi non esenti da difetti, i quali si sono moltiplicati con l'avvento di ... indovinate un po'? Internet, naturalmente. Se avete effettuato una transazione online con le 16 cifre della vostra carta, probabilmente qualche timore l'avete provato. Paura di perdere i vostri risparmi o di essere inseguiti da qualche personaggio orwelliano. Bè, sappiate che da poco Google negli USA traccia anche l'utilizzo delle carte nei negozi. Non abbiamo scampo, insomma.

Il motto "la pubblicità è l'anima del commercio" è ancora oggi valido, ma le modalità sono molto cambiate rispetto ad una volta. E' vero, ci sono ancora le "réclame" e i manifesti pubblicitari, ma a farla da padrone è il web: qui le persone cercano di tutto e, tra le innumerevoli proposte, apparire per primi nella lista dei risultati è un vantaggio innegabile. Sono nati così dei software che tracciano le vostre ricerche e "comprendono" se quel link vi ha portato ad acquistare l'oggetto di cui avete bisogno. Tutti dati che il motore di ricerca (perlopiù Google) rivende a chi fa business, per migliorare il modo di proporsi in rete. Il loro pensiero è quindi: una persona ricerca un prodotto, mi trova subito tra chi lo propone, quindi acquista da me, online e con carta di credito. Voi mi direte: basta cercare su internet e poi acquistare nel negozio reale. E qui la novità: se uso la carta mi tracciano anche là. La privacy? Scomparsa del tutto.

Per Google, un gigante tecnologico da 79 miliardi di dollari (fatturato 2016), è quindi possibile collegare i percorsi digitali compiuti dagli utenti con gli acquisti reali, in un modo molto più ampio di quanto non fosse possibile prima. Ma così facendo, si sta ancora una volta percorrendo un territorio minato, accedere a dati molto sensibili dei consumatori. I sostenitori della privacy affermano che sono in pochi a capire come le transazioni vengono analizzate, sia per analfabetismo digitale che per consensi rapidi dati alle app, senza leggere a fondo le condizioni contrattuali per l'uso. Big G (alias di Google) si è difeso dicendo che i dati subiscono un processo di crittografazione con un nuovissimo sistema, in attesa di brevetto, sviluppato insieme a tre scienziati dell'MIT. Naturalmente non ha voluto rispondere alle domande incalzanti sul come funzioni questo sistema, aggiungendo che alle aziende interessate arrivano solo numeri e quantità, quindi nessuno sa (sulla carta, n.d.r.) chi è quella persona, cosa ha comprato e dove.

Nel 1994 a Washington fu fondato l'Electronic Privacy Information Center (EPIC), un gruppo di ricerca che ha il compito di portare l'attenzione pubblica sui problemi crescenti in materia di libertà d'informazione e di privacy. Sul tema l'EPIC si è espressa in modo molto sfavorevole, esortando i singoli governanti e poi il Congresso americano a chiedere risposte su come Google e altre società tecnologiche stiano raccogliendo e utilizzando i dati degli utenti. Del resto Big G non è nuova a queste trovate da Grande Fratello. Sfruttando, come si diceva prima, la leggerezza delle persone, negli Stati Uniti alcune aziende hanno ottenuto dati georeferenziati su chi cercava un prodotto e sul luogo dove andava ad acquistarlo, semplicemente utilizzando il GPS presente sullo smartphone. Home Depot, Espresso, Nissan, Sephora, alcune tra le società interessate a questo "giochetto".

A guardare bene, comunque, una violazione dei diritti o, meglio, un consenso non dato, c'è senz'altro. Se è vero che tutti gli utenti iscritti ai servizi di Google hanno approvato la condivisione dei loro dati con terze parti, è anche vero che nessuno ha dato l'ok ai commercianti (quelli del negozio reale) di passare le informazioni legate alla carta di credito. E non basta. La fallacità dei sistemi software espone i dati personali non solo a chi li usa per business, ma anche agli hacker che si divertono a pubblicarli, a prescindere da quali entità oscure possano esserci dietro. Sarà dunque necessario regolamentare a dovere certi "digitalismi" di mercato, tenendo comunque presente che la rete è diventata indispensabile per tutti. Forse un piccolo prezzo, ma proprio piccolo, è inevitabile pagarlo. Come dire: abbiamo voluto la bicicletta, ora ci tocca pedalare.


(fonte https://www.washingtonpost.com/news/the-switch/wp/2017/05/23/google-now-knows-when-you-are-at-a-cash-register-and-how-much-you-are-spending/; si ringrazia il sito https://null-byte.wonderhowto.com per la gentile concessione della foto)

mercoledì 24 maggio 2017

Il destino chimico dell'amore


L'amore è un sentimento pazzo. Nei miei primi anni di adolescenza i meno eleganti terminavano questa frase in un modo che vi risparmio. Dicevo, quel sentimento che ci investe a tutte le età, o che almeno dovrebbe farlo, per le persone, le passioni, gli animali, sé stessi, ha sfaccettature spesso impreviste. E forse proprio questo lo consacra a bellezza unica e pura, così pura che poi, quando manca, ci fa star male. Ok, ho detto delle banalità. Oggi, nello specifico, discorriamo del rapporto amore-chimica. La chimica degli uomini, intendo.

Avete mai sentito parlare dell'ossitocina? è un ormone di tipo proteico prodotto dall'ipofisi che, fino a pochi anni fa, era ritenuto un neurotrasmettitore capace solo di assistere (chimicamente) il momento del travaglio e dell'allattamento. Poi, qualcuno dimostrò che esso è coinvolto in tutte le fasi dell'attività sessuale, dai preliminari fino all'orgasmo, cosicché un ricercatore molto poetico lo definì “ormone dell'amore”. Però, come tutti sanno, questo sentimento "croce e delizia" (o viceversa) non ci fa volare in continuazione. A volte i motori si inceppano, le ali sbattono meno, e così, alla stregua di una depressione ad alta quota, i vuoti d'aria non mancano. Bè, se qualcuno prova a risalire è sempre grazie all'ossitocina. è l'ipotesi piuttosto plausibile evidenziata di recente in uno studio dell'Università Norvegese di Scienza e Tecnologia, condotto in collaborazione con l'Università del New Mexico.

Lo studio ha voluto fare luce rispetto a due correnti di pensiero. Ci sono infatti degli scienziati che sostengono la funzione di questo ormone come basilare per migliorare un rapporto e renderlo più forte con la persona che si ama; altri invece credono che i livelli di ossitocina aumentino di più quando ci troviamo in situazioni difficili da risolvere e la cresciuta produzione ci aiuta a cercare nuovi partner. Allora i ricercatori hanno effettuato dei test su circa 150 coppie, metà americane e metà norvegesi, ai quali è stato chiesto di pensare al loro compagno e a come lo vorrebbero più partecipe nel rapporto. Risultato: i livelli di ossitocina erano alti in corrispondenza di un forte investimento personale nel legame. Confermata quindi la teoria come ormone dell'amore.

Il passo successivo è stato di esaminare contemporaneamente il coinvolgimento di entrambi i partner. E qui la sorpresa. Il livello dell'ormone è cresciuto di più, rispetto alla media, se un partner fortemente coinvolto mostrava di credere che il suo omologo lo fosse meno. In altre parole, la produzione cresceva se la differenza di "energia sentimentale" (passatemi la locuzione) era significativa all'interno delle coppie. In tal caso l'ossitocina potrebbe agire come ormone della crisi.  Un esito che può apparire contraddittorio, cioè che i valori di ossitocina salgano sia quando le cose vanno bene che in caso contrario; ma in fondo non lo è, a detta dei ricercatori. La loro spiegazione è questa: l'ossitocina potrebbe promuovere l'attenzione e la motivazione verso il rapporto in cui queste stanno calando, al fine di tirare a sé chi dei due si sente temporaneamente meno attratto dall'altro, ed arrivare ad un positivo beneficio di coppia. Un ormone che, in definitiva, "vigila" sul rapporto e tende a rimetterlo in carreggiata, se ci sono degli sbandamenti.

Tranquilli, non penserete che davanti a situazioni gravi, le proteine secrete dal vostro organismo vi facciano fare cose che non volete. Ci sono casi in cui il coinvolgimento è così scarso che l'ossitocina non cresce più. La vostra volontà, o gli eventi che non siete riusciti a governare (e qui nascerebbero fiumi, che dico fiumi, cascate di parole), vi permettono di staccare la spina definitivamente. Secondo gli scienziati, è come se la natura ci avverte che non ha più senso spendere energie e risorse su una storia finita. In pratica, chimica sì, ma fino ad un certo punto. "Quello che è biologicamente funzionale non sempre coincide con ciò che è socialmente desiderabile" ha affermato il professor Grebe, uno degli autori del lavoro. Come dargli torto ?

Questa volta non vi lascio con la solita postilla finale. L'argomento, dal punto di vista umano e scientifico, insomma dal lato che vi piace di più, offre spunti a palate. Alla prossima.



(fonte https://www.eurekalert.org/pub_releases/2017-05/nuos-lhi051817.php; si ringrazia il sito http://www.originalstore.it per la gentile concessione della foto)

giovedì 18 maggio 2017

L'auto con le orecchie


Vi sarà certamente capitato di preoccuparvi, durante la guida, se avete sentito qualche insolito rumorino provenire dalla vostra auto. C'è chi reagisce minimamente, quasi senza battere ciglio, da completo fatalista, chi invece comincia ad allarmarsi, a sudare, a considerare qual è la presumibile distanza dal meccanico più vicino, specie se si è lontani da casa. E magari a prevederne anche la spesa. In futuro le auto intelligenti potrebbero capire subito di cosa si tratta. Semplicemente ascoltando, come i più bravi meccanici.

La startup californiana OtoSense sta collaborando con grandi case automobilistiche per sviluppare un software in grado di donare un vero e proprio senso dell'udito alle vetture, al fine di auto-diagnosticare eventuali anomalie e segnalarle prima di complicazioni più grosse, tecniche ed economiche. La tecnologia potrebbe assistere i veicoli tradizionali o, più avanti, quelli a guida automatica, per una maggiore sicurezza, ad esempio quando sta arrivando un mezzo a sirene spiegate, oppure comprendendo dai rumori ambientali la qualità della superficie stradale e, di conseguenza, regolando l'andatura. Il software si basa su criteri di apprendimento automatico, che consentono una sorta di addestramento (training) per identificare i rumori specifici, tra cui piccole variazioni nel rumore del motore o in quello che si produce in frenata. La PSA, il più grande gruppo francese che possiede Citroen e Peugeot (e di recente anche Opel), sta testando una versione del software che utilizza migliaia di suoni generati da molti suoi modelli.

Innovativa è stata l'idea di aggiungere molti accelerometri sul parabrezza di un veicolo per trasformarlo in un microfono gigantesco. Pensate quindi di procedere sulla strada e di registrare simultaneamente ciò che "dice" il motore, ai vari regimi di velocità e potenza, insieme ai suggerimenti che provengono dal mondo circostante la nostra vettura: una preziosa mole di informazioni che, elaborata con processori veloci e dedicati, può segnalare anomalie impreviste. Rispetto alla tecniche di visione artificiale, che comunque sono indispensabili se pensiamo alle auto a guida indipendente, è possibile posizionare numerosi microfoni intorno ad una macchina senza elevare il costo in modo significativo, anche dal punto di vista computazionale. Naturalmente i progettisti e produttori di elettronica dovranno lavorare alacremente per ottenere al riguardo una buona economia di scala.

I test hanno dimostrato che il sistema effettua una diagnosi corretta, ad oggi, nel 95 % dei casi. Alla PSA sono già proiettati su altre applicazioni di questo orecchio bionico, la cui utilità alternativa potrebbe essere di accelerare le riparazioni e rendere i clienti più tranquilli. Entrano quindi in gioco anche tematiche di marketing, dato che un cliente che sente troppi rumori nella sua auto la percepisce come poco affidabile e probabilmente cambierà marchio al prossimo acquisto. Sebastian Christian, il CEO di OtoSense, è convinto delle potenzialità di questa tecnologia, con la quale possono essere intercettati, in modo molto diverso, problemi che con i classici sensori elettronici si farebbe fatica a comunicare. Senza dubbio, molte funzioni legate all'automazione sono e rimarranno a carico di fotocamere veloci o di speciali radar, ma nel campo della diagnostica l'hardware audio può rappresentare un driver in più nella spinta verso un'alta digitalizzazione in campo automotive.

Come principio, controllare la dinamica di un sistema e prevederne probabili guasti tramite un'analisi acustica non è una novità. Lo si fa già in alcuni laboratori per caratterizzare apparecchiature di vario genere, sintonizzandosi sulle frequenze tipiche dei prodotti campione e verificando che sugli altri non ce ne siano di indesiderate. Ma le novità di OtoSense sono almeno due: la prima è quella del tempo reale, dare cioè un feedback costante sull'auto in marcia; la seconda è di utilizzare un software che generi in autonomia degli alert quando ai rumori convenzionali se ne aggiungono altri legati a possibili criticità della vettura. Lontani i sensi come tatto, gusto e olfatto, poco propensi al settore ma anche ad essere "tecnologicizzati", la vista e  l'udito sono alla portata dei mezzi di trasporto con cui si muoveranno i nostri posteri.




martedì 9 maggio 2017

Un ingegnere su tutti


Qualche giorno fa ho provato a guardare nei miei post, controllando se avessi postato i pezzi introspettivi di mia invenzione, quelli senza fonti, con una cadenza circa uguale, intervallandoli con i post “sciento-tecnologici”. La verifica ha avuto esito negativo: naturale, non era mia intenzione farlo. Si è trattato di un calcolo infantile per capire che era giunta l'ora di riscrivere uno di quei post in cui mi lecco i baffi. Per come mi diverto a concepirlo e a girarvelo. Eccolo qua.

Ultimamente i corsi di laurea in Ingegneria si sono moltiplicati. Si va da quella Gestionale, ai più non nuovissima, passando per la Biomedica, fino ad arrivare ai vari spezzettamenti di carattere Ambientale. La diversificazione in questo campo è importante, mi sembra chiaro. Ma, come in tante cose, si rischia di specializzare troppo e, se da un punto di vista questo può essere un bene, dall’altro ci si può ritrovare, usciti da prestigiosi politecnici o da blasonate università, a saper fare una sola cosa. E personalmente, forse per deformazione esperienziale, non mi pare idea buona e giusta. Ve lo immaginate un ingegnere dei serramenti automatici alle prese con una valutazione catastale? Oppure un ingegnere degli infotainment systems che si cimenta con l'adeguamento sismico di una scuola? Lo so, la suddivisione degli albi professionali non lo consentirebbe, l’ho scritto per puro spasso, inventando quei tecnici inesistenti. Comunque, non è di questo che voglio parlare (su, non vi arrabbiate).

Mi è capitato in un paio di occasioni di sentire nominare la figura dell'ingegnere nucleare come il non plus ultra dell'umano genio, usato con riferimento a persona di grande intelligenza che deve per forza comprendere tutto, dalla verità delle cose fino ai massimi sistemi. Due esempi facili facili. Il primo è umoristico. In un noto sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo, qualcuno chiede ad Aldo di fare il massaggio cardiaco ad una persona che sta male, e lui agisce sul lato opposto a quello corretto; lo rimproverano e il simpaticone afferma, col suo modo unico di esprimersi "non sono mica un ingegnere nucleare che devo sapere dove sta il cuore!". Il secondo caso, sportivo, è recentissimo: l'allenatore del Torino Calcio, a fronte delle immagini secondo cui, a suo dire, un fallo del proprio difensore era inesistente, si è così espresso "non serve un ingegnere nucleare per vedere che prende la palla ...".

Non me ne vorranno i colleghi usciti con la suddetta specializzazione, però 'sta cosa è un po' antipatica. Sarà che veniamo tutti dalla generazione H (quella della bomba ad idrogeno, contrapposta alla generazione Z, dei Zuzzurelloni col telefonino), oppure perché nell'infinitamente piccolo solo in pochi ci sanno scavare, ma l'accezione comune che si dà all'argomento "nucleare" è di immane acume e supremo fascino tecnologico. Se poi ad esso si aggiunge il sostantivo "ingegneria", di per sé sinonimo di stima e rispetto (si fa per dire...), dai malcapitati Paolo Rossi, Mario Bianchi, o Ahmed Salam, dottori in Ingegneria Nucleare, ci si aspetta come minimo l'invenzione del secolo. Il prossimo. E allora, noi semplici Civili, Edili, Elettrotecnici, Meccanici, Elettronici, siamo l'ultima ruota del carro?

Qui si tende a fare razzismo intellettuale e tecnologico, si propaganda la superiorità di un classe di professionisti (esigua, per la verità), senza averne chiare certezze, senza un minimo di identificazione sociale, culturale e applicativa rispetto a come si esercita una professione. "Eh, mio figlio vuole fare ingegneria nucleare", ho sentito dire una volta da una genitrice, come a significare "sposterà i protoni con il solo pensiero e indirizzerà i quark concentrandosi al massimo", mentre sul lavoro era indecisa se il suo pargolo da grande avrebbe diretto il CERN di Ginevra o condotto una cattedra all'MIT di Boston. Il tutto guardando dall'alto un'altra madre che, con umiltà, andava sventagliando ai quattro venti (lo so, questo è un chiaro ossimoro) la volontà della sua ragazza di iscriversi a Ingegneria dell'Informazione (ce l'aveva nel sangue, visto che la madre era solita "informare" un po' tutti).

Voglio dire, cos'hanno di meno i tecnici che studiano e poi progettano degli edifici grandiosi, che sgobbano sui testi di Scienza delle Costruzioni e poi tirano su i ponti (avanti, l'ho scritto apposta, sfogatevi con le cattiverie), che valutano se una valle incontaminata potrà essere avvelenata col cemento e con le pale eoliche, che producono la prossima app che vi permetterà di non restare imbottigliati nel traffico? Sono forse figli di un dio minore? è inutile stare a rimuginare, non sentirete mai dire "problema risolvibile solo con un ingegnere meccanico", oppure "ha un QI così alto che è destinato a fare l'ingegnere minerario", o ancora "che ragazzo in gamba, per me potrebbe iscriversi ad ingegneria elettrica". In questo ambito, l'unica laurea che può avere ambizioni di prestigio e livelli di intelligenza "vinciana" tipo la nucleare è quella in ingegneria aerospaziale o, tutt'al più, aereonautica; le restanti sono tutte fuori dal podio, da scartare per i presunti geni assoluti.

Credetemi, non è affatto giusto: essersi spremute le meningi e poi avere una scarsa considerazione. Lo ribadisco, è indice di pressapochismo e qualunquismo. Alla fine, però, qualcuno si accorgerà che il valore di un tecnico non viene dal titolo ma da come riesce a mettere in pratica studio, capacità e competenze. Prendete me, ad esempio, che mi sono laureato in Ingegneria Ironica. Sul campo sono imbattibile ;-)



(in foto, osservatorio di Terrazza delle Stelle, Monte Bondone - Trento)

martedì 2 maggio 2017

Tumore alla mammella, un aiuto dalla NASA


L’esplorazione dello spazio è iniziata nel 1957 con lo Sputnik1 sovietico. Da allora sono stati fatti passi da gigante, ed in questi giorni si stanno vivendo momenti importanti, grazie alla sonda Cassini che, dopo circa 20 anni di viaggio, sta inviando le prime foto degli anelli di Saturno. E la storia ovviamente non finisce qua. Gli investimenti mondiali dedicati sono quasi incalcolabili, con tutte le eventuali critiche del caso. Ma qualche volta gli studi spaziali portano benefici anche sulla Terra.  

La dottoressa Susan Love, chirurgo californiano specializzato nei tumori al seno, che ha creato una sua fondazione al riguardo, sta studiando da tempo il microbioma dei dotti mammari, i canali sotto la pelle che portano il latte al capezzolo. Per inciso, il microbioma è l'insieme del patrimonio genetico di un ambiente definito (un intero organismo o una  parte di esso) e della sua interazione con i microrganismi in esso presenti. Visto che la maggioranza dei tumori alla mammella hanno origine nei dotti, la Love ha provato a mapparli per determinare se ospitano eventuali agenti infettivi che alimentano il male. Il compito è risultato difficile, dato che sono stati riscontrati molti più microbi del previsto.

Gli scienziati della NASA hanno da tempo sviluppato una serie di tecniche per analizzare  concentrazioni piccolissime di microrganismi. Si tratta di strumenti estremamente sensibili che sono utilizzati per la protezione dei pianeti, nel senso che nei viaggi interspaziali i batteri residenti sulla Terra non devono poter contaminare i mondi lontani. Fortunatamente, uno degli scienziati che lavorano al centro JPL (Jet Propulsion Laboratory) della NASA, il dottor Vaishampayan, conosceva il meccanismo con cui una madre condivide il suo microbioma con il proprio bambino, attraverso l'allattamento al seno, avendolo studiato nel post-dottorato a Berkeley. Un concetto poco diffuso presso quasi tutti i biologi, secondo cui il seno e i suoi condotti sono sterili.

Il team ha analizzato il fluido duttale su 23 donne sane e su 25 che avevano contratto il cancro al seno, utilizzando tecniche molto avanzate per determinare la fauna microbica. Ha stabilito che il fluido condotto al seno ha in effetti un microbioma distinto: in pratica la popolazione di microbi nelle pazienti sane sembra differire da quelle che non lo sono. Ma questo era solo un primo passo, anche perché la diversità poteva essere scaturita dai trattamenti a cui si erano sottoposte le donne più sfortunate. Successivamente, gli scienziati del JPL hanno sviluppato una tecnologia per creare delle mappe dettagliate dei dotti mammari, in analogia a quella utilizzata per mappare la topologia di altri pianeti . Le informazioni così ottenute potrebbero portare a più precisi interventi chirurgici di natura oncologica.

Negli ultimi tempi la dottoressa californiana aveva cercato di utilizzare le ecografie 3D (tecnologia di cui avevamo già discusso) per ottenere immagini dei condotti, su donne in buona salute, durante l'allattamento. Cosa non semplice perché manca un quantitativo di dati sufficiente. Ecco quindi l’importanza del JPL: gli scienziati abituati a realizzare mappe dettagliate per topografie complesse, anche se di natura completamente diversa, possono fornire un utile contributo ad un lavoro simile, in ambito anatomico e, soprattutto, per una patologia devastante come quella tumorale. In fondo il seno umano per certi versi è inesplorato come la superficie di Marte, ha affermato la dottoressa Love, cogliendo in pieno le positive ricadute di questa analogia.

L’incursione di carattere medico al JPL ha avuto molto successo. E’ stato creato un forum di Ingegneria Medica, al quale partecipano scienziati e ingegneri desiderosi di lavorare su progetti medici. Ad esempio, è venuta fuori una collaborazione con alcuni neurochirurghi per sviluppare materiali intelligenti da utilizzare in chirurgia spinale; ancora, vogliono mettere a punto una migliore tecnologia di imaging per guidare i chirurghi in modo più puntuale. Pur essendo davvero una sinergia inedita, quella tra lo studio dei tumori e le ricerche lontane dal pianeta azzurro, il suo esordio sembra promettere proprio bene.



(fonte https://www.statnews.com/2017/04/18/breast-cancer-jpl-space/; nella foto, gentilmente tratta dal sito http://www.ctsnotizie.it, Valentina Tereshkova, la prima donna che volò nello spazio, nel 1963)