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lunedì 30 ottobre 2017

Possibili legami tra schizofrenia e marijuana


Quando facevo le medie ricordo che giravano dei manifesti pubblicitari contro il fumo. Lo slogan era più o meno questo "Chi fuma non si alza di 1 cm", a voler dire, almeno secondo il mio QI dell'epoca, che la sigaretta non aiutava affatto a sentirsi più grandi. Altri la intesero diversamente: il fumo fa rimanere bassi, andavano affermando. Ora, al di là dell'interpretazione, era una della prime grandi campagne per la lotta al tabagismo, specie in età adolescenziale. Ma oggi non farò il copywriter, tantomeno il denigratore del tabacco, anche perché, come alcuni sanno, mi concedo il vizio di fumare sigari, toscani per la precisione.

Recenti ricerche sulla marijuana (anche detta Pot in America, cosa che ignoravo) stanno affrontando tematiche inerenti il suo uso terapeutico, cosa che di solito avviene solo con lunghi studi clinici, durante lo sviluppo di un farmaco. Negli Stati Uniti l'uso di cannabis tra i ragazzi delle scuole superiori sovrasta quello delle sigarette. Al congresso dell'Associazione Psichiatrica Mondiale a Berlino è stato presentato il risultato di uno studio di 1.200 persone affette da schizofrenia. L'indagine, condotta dall'Istituto Max Planck di Medicina Sperimentale, ha analizzato un'ampia gamma di fattori di rischio, sia genetici che ambientali, in relazione alle modalità di crescita di questa malattia mentale. E' stato mostrato che le persone che avevano consumato cannabis prima della maggiore età hanno sviluppato la schizofrenia circa 10 anni in anticipo rispetto agli altri. Maggiore era la frequenza di utilizzo, minore era l'età di comparsa dei sintomi della schizofrenia. Nel considerare altri fattori, come l'alcool o la predisposizione genetica, il consumo di marijuana restava la causa principale.

L'approvazione della cannabis per il trattamento della nausea, del dolore e di altre condizioni di di salute gravose prosegue con l'intento di legalizzarne anche l'uso "ricreativo". Gli effetti collaterali apparentemente innocui  hanno contribuito a tracciare un percorso verso la creazione di un filone favorevole alla legalizzazione, con tutto un contorno commerciale per distribuire altri prodotti di consumo aventi la stessa derivazione. Lo studio presentato nella capitale teutonica potrebbe esserne un freno. Il problema è però che non trova un'accettazione universale. I dati disponibili su questo argomento non sono definitivi e rigorosamente scientifici, soprattutto nel legame causa-effetto, osservano alla NORML, un'organizzazione statunitense che promuove la legalizzazione della marijuana nel pubblico adulto. Questi signori affermano infatti che in molti casi l'aumento d'uso non è stato proporzionale allo stesso incremento di diagnosi di schizofrenia o psicosi.

Ma al congresso di Berlino sono stati approfonditi anche i meccanismi che potrebbero produrre effetti deleteri nel cervello di un giovane. Il principale composto psicoattivo presente nella marijuana, il THC (tetraidrocannabinolo), interferisce con il normale flusso di segnali tra le cellule cerebrali, che solitamente avviene mediante sostanze chimiche chiamate endocannabinoidi.  Questi composti naturali attivano un recettore che agisce come interruttore,  mantenendo il livello di attività cerebrale, tra segnalazione standard o eccitazione, all'interno di una gamma "normale". Al contrario la THC, sostituendo e sovrapponendosi agli endocannabinoidi, modifica il sistema di autoregolazione, portando questi ultimi a bassi livelli, che causano eccessivi stimoli del sistema nervoso con disturbi d'ansia e impulsività, oppure a livelli molto alti, la cui conseguenza porta alla depressione.

Tornando ai ragazzi, i soggetti più critici da questo punto di vista, il malfunzionamento del segnale endocannabinoide causato dal THC nel cervello adolescente può ostacolarne lo sviluppo neurologico che coinvolge trasmettitori e recettori, compromettendo così la comunicazione cerebrale in modo permanente. Si tratta di un studio piuttosto allarmante, che si aggiunge ad altre ricerche che già in passato avevano tratto conclusioni simili: l'assunzione di Pot nei giovani può elevare il rischio di portare alla schizofrenia in età adulta. E se pensate che l'Italia è il secondo paese in Europa per consumatori di cannabis tra i 15 e i 34 anni, abbiamo un motivo in più per correre ai ripari.



martedì 17 ottobre 2017

Il braccialetto biomedico intelligente


Smart è una parola dai mille significati. Bè, mille forse no, ma negli ultimi anni il termine è stato usato, riusato e svalutato. Con smart oggi si intende un oggetto, una città, una rete, di persone o di dispositivi, un insieme di entità che mostrano una sorta di intelligenza, un sistema non necessariamente chiuso che nello specifico si adegua a situazioni nuove e ne facilita il fluire delle informazioni, per migliorare la vita delle persone. Come dite? Non avete compreso? Smart city, smart community, smart band vi dicono qualcosa? Ah, ho capito, avete in mente solo smartphone, il nostro talismano, la panacea di tutti i mali, per questo le altre locuzioni non vi sono chiare. Vero? Suvvia, sto scherzando.

Ero indeciso se iniziare come sopra o narrarvi la storia del cerotto. Tra un po’ capirete il perché. Ho optato per la prima, se non altro perché era più ad effetto... Ma veniamo al dunque. Cosa sono le smart band? Si tratta di braccialetti di gomma o plastica, con sensori ed elettronica (c’è anche l’orologio ma non lo usa nessuno, strumento ormai obsoleto), per monitorare l’attività fisica. Si chiamano anche fit-band, perché utili al fitness. Non parlo degli smartwatch, quei prolungamenti da polso dei telefonini per i nerd più disperati. Con la semplice struttura di uno smart band, i ricercatori dell'Università del Nebraska-Lincoln, la Harvard Medical School e l'MIT hanno progettato un dispositivo che potrebbe guarire ferite croniche o lesioni che non si rimarginano facilmente usando  fibre speciali "a bordo" della fascetta da polso. Esso potrebbe coadiuvare una guarigione migliore e più veloce, controllando con precisione il farmaco tramite l'abbinamento ad uno smartphone.

Il particolare braccialetto è costituito da fibre elettricamente conduttive, rivestite da uno speciale gel che può essere realizzato ad personam con antibiotici, fattori rigeneranti dei tessuti, antidolorifici o altri farmaci. Un microcontrollore, contenuto all’interno, viene attivato da uno smartphone o da un altro dispositivo wireless, e invia piccole tensioni elettriche attraverso una o più fibre. Quella tensione riscalda la fibra e il gel, rilasciando qualsiasi prodotto in esso contenuto. A detta dei ricercatori, in una sola smart band si potrebbero inserire più farmaci su misura per un tipo specifico di ferita, offrendo la possibilità di controllare accuratamente la dose e il programma temporale di rilascio di tali farmaci. Questa combinazione di personalizzazione e controllo potrebbe accelerare in modo importante il processo di guarigione, ed è il vero plus del dispositivo.

Esistono già in commercio cerotti contenenti farmaci a rilascio prolungato nel tempo, per periodi però solo di qualche ora. La capacità di cedere il principio attivo è pero predeterminata e non tiene conto delle reali esigenze del paziente, magari in funzione dell'ora del giorno, dell'aggravarsi della patologia e di altri fattori che richiederebbero una variabilità nel passaggio dal cerotto al derma e quindi all’organismo stesso. Invece questa nuova tecnologia può essere applicata a molteplici settori di ingegneria biomedica e della medicina in generale. Si prevede che inizialmente verrà usato per trattare le ferite cutanee croniche derivanti dal diabete, quando cioè a causa dell’iperglicemia si verifica un frequente e precoce indebolimento della membrana basale dell’epidermide, che resta fragile e difficilmente curabile anche in seguito a piccoli traumi.

Naturalmente, al di là del brevetto della smart band, la distribuzione in commercio, negli USA come in altri paesi del mondo, verrà sottoposta a severi controlli, sia su animali che su uomini, per quanto  la maggior parte dei componenti del progetto è stato già approvato dalla Food and Drug Administration, l'ente governativo statunitense che regolamenta alimenti e farmaci. Nel frattempo, gli scienziati lavorano già su versioni più evolute, incorporando sensori a filo per misurare la glicemia, il pH ed altri indicatori correlati allo stato dei tessuti cutanei. Il fine sarà quello di ottenere un sistema completo che decide in autonomia come procedere, rilasciando uno o più farmaci con modalità strettamente legate alla salute del paziente, in tempo reale. Più smart di così ....



(fonte https://www.eurekalert.org/pub_releases/2017-10/uon-sbc100517.php; si ringrazia il sito https://www.attn.com per la gentile concessione della foto)

lunedì 2 ottobre 2017

Uno scanner palmare per l'agricoltura del futuro


Come settore primario, l'agricoltura è stata da sempre guidata da previsioni, sapere tramandato e conoscenze empiriche. Ed è così ancora nella maggior parte dei casi. Ma il livello spinto di innovazione tecnologica sta per travolgere (nel senso buono del termine) anche tale settore. Uno dei motivi è quello dei cambiamenti climatici: l'alta imprevedibilità delle condizioni meteorologiche, aggiunta all'aumentata frequenza degli eventi calamitosi, deve far virare le buone pratiche di una volta verso metodi più sistematici e strumentali. Anche perché una ricerca di pochi mesi fa dell'Università di Harvard ha dimostrato che gli eccessivi livelli di CO2 riducono notevolmente la quantità di proteine nelle colture di base, compresi grano e riso, innalzando il rischio di sviluppare maggior carenza di proteine ​​nelle persone.

Da alcuni anni si sente parlare di agricoltura di precisione, come quella strategia gestionale che si avvale di strumentazioni innovative per la esecuzione di interventi agronomici, tenendo conto delle effettive esigenze colturali e delle caratteristiche biochimiche e fisiche del suolo. Detto così sembra un compito improbo, ma deve essere pensato come una cura più puntuale di tutte le fasi che portano al raccolto. Circa gli strumenti, esistono alcuni sensori sul trattore che possono rivelare la condizione dei campi, oppure i droni, molto quotati per lo scopo, per mostrare le aree meno in salute delle parcelle e focalizzare l'intervento proprio su quelle. Ma ora sta uscendo uno strumento in più per i coltivatori, uno scanner palmare per determinare immediatamente i contenuti nutrizionali del raccolto.

Il dispositivo, chiamato GrainSense, dal nome della società finlandese che lo sta sviluppando, analizza grano, avena, segale e orzo scansionando un campione con varie frequenze di luce vicino agli infrarossi. La quantità di ogni tipo di luce assorbita consente di individuare con precisione i livelli di proteine, umidità, olio e carboidrati contenuti nel campione rappresentativo di quel punto dell'appezzamento. Uno strumento che potrebbe rivelarsi fondamentale per mitigare gli effetti del cambiamento climatico sulla qualità del cibo.  Questa tecnica è stata utilizzata per decenni in laboratorio, ma questa è la prima volta che viene reso disponibile immediatamente su un dispositivo palmare. E poi i tempi dei laboratori sono di giorni o addirittura settimane, con analisi su circa mezzo chilo di cereale. Così nel frattempo le condizioni del raccolto stanno già mutando. Al contrario, GrainSense richiede poche decine di chicchi per rivelare la loro composizione in alcuni secondi. Queste informazioni, insieme alle coordinate GPS del punto in cui sono state effettuate le misurazioni, sono collegate ad un'applicazione mobile.

I risultati in tempo reale indicano agli agricoltori se devono aggiungere fertilizzanti o ridurre i livelli di umidità quando i raccolti crescono. Ne beneficia sia il terreno, senza una carica aggiunta eccessiva, ed anche il coltivatore che risparmia tempo e denaro. L'applicazione può quindi essere utilizzata per valutare l'impatto delle condizioni ambientali e la qualità del suolo, in funzione del raccolto, anno per anno. Ma la tecnologia potrebbe essere adattata per valutare il contenuto proteico di qualsiasi materiale organico, compresa la carne. Ciò significa che si apre la porta anche ad altri dispositivi consumer, al fine di scoprire, un giorno, cosa c'è nel cibo che acquistiamo e portiamo sulla nostra tavola. Tant'è vero che qualcuno si sta muovendo per miniaturizzare sensori più piccoli, magari con funzionalità ridotte, da collegare ad uno smartphone.

La ricerca e l'innovazione sono elementi essenziali per l'agricoltura nell'era dello sviluppo sostenibile: preservare gli ecosistemi e produrre cibo sufficiente e sano per tutti. A confronto con altre potenze mondiali tutta l'Europa (Italia compresa) è in ritardo in questo campo, posizionandosi dopo Cina, Usa, Giappone e Corea del Sud. Una situazione che trova origine in un progressivo disallineamento tra i laboratori e i campi, tra la ricerca teorica e le esigenze concrete delle imprese e dei consumatori. Ma la sostenibilità passa anche dai piccoli passi: ben vengano dunque significative tecnologie come quella di GrainSense, per dare strumenti diretti agli operatori della terra, ai quali viene chiesto di accrescere la propria sensibilità sul tema, mettendo talvolta in discussione tradizioni secolari.